Veicolo culturale è un’espressione figurata, ma prendiamola, per gioco, alla lettera: come si potrebbe immaginare questo veicolo?
Nelle sembianze d’un furgoncino zeppo di libri? Un treno snello che corre da una cittàall’altra? Somiglia forse a un carro armato?
Dopo un’esperienza trentennale nel campo degli audiovisivi, il veicolo culturale che immagino non è solo un messaggero, un’innovazione o un’arma, ma quasi un utensile, una macchina asfaltatrice (un poco usurata) che livella i sentieri della lingua.
Non si fraintenda; è un mezzo indispensabile e, come tutti gli strumenti dei quali non si può fare a meno, va utilizzato con maestria e responsabilità. Chi mai incatramerebbe, appena nel tempo
d’una notte, i sampietrini romani per ottenere qualche straduccia sgangherata  che causerà più fastidi che comodità? In fondo il sampietrino è solo un cubetto di selce e può essere lavorato e adattato
all’uso, ma non in fretta e furia, non con approssimazione e soprattutto nel rispetto di precise regole di posa in opera.
L’audiodescrizione per i non vedenti e i sottotitoli (inclusi quelli per i sordi) sono veicoli culturali potenti, né più né meno dell’adattamento dialoghi, poiché avvicinano lo spettatore
a mondi lontani, ma come vengono sfruttati?
Una lingua non è solo un insieme di regole grammaticali; è il pensiero di un popolo, è il suo modo di muoversi, è il ritmo della sua voce e la sintesi estrema della sua storia. Non basta, dunque, tradurre le parole con le quali un testo prende forma su carta; occorre comprenderne il messaggio e adattarlo nel modo più fedele, purché sia innanzitutto fruibile. Se dovessi riportare qui e ora tutti i casi meritevoli forniti dai nostri dialoghi adattati per il doppiaggio, dalle nostre audiodescrizioni e dai nostri sottotitoli, ruberei pagine su pagine, ma posso, in breve, dire con certezza cosa li accomuna tutti: lo studio, e non nel senso, un po’ triste, di penitente immersione tra le pagine di un manuale polveroso. Lo studio di cui parlo è la ricerca, la cura, l’amore che il latino STUDIUM tramanda con la propria radice.
Un concetto come questo non lascia spazio all’approssimazione, ma richiede ore, giorni, di cui spesso chi fa questo mestiere è a corto. Per rispettare le scadenze incalzanti, si prendono certe scorciatoie che,
precedente dopo precedente, danno vita a lingue parallele, nate più per adattarsi a necessità personali che al lessico, e che storpiano la normale sintassi senza tuttavia contravvenire ad alcuna regola grammaticale.
Il campo dei sottotitoli è disseminato di trappole simili, nelle quali si può facilmente cadere (anche per rispettare il poco spazio a disposizione): calchi linguistici troppo forzati, prestiti svantaggiosi di parole e formule ricorrenti che, certo, fanno risparmiare del tempo, ma appiattiscono la lingua di destinazione senza però aggiungere nulla alla resa dell’originale.
Per quanto riguarda le audiodescrizioni per i non vedenti, non disponendo di un testo al quale fare riferimento, bisogna saper attingere a un vocabolario dell’immagine che alle volte non si ha il tempo di consultare con la cura necessaria. Qui l’opera di scrittura (a tutti gli effetti opera dell’ingegno) richiede tre passaggi che mai andrebbero trascurati. Innanzitutto, bisogna osservare e decodificare l’unione
di forma e significato che dà vita all’immagine audiovisiva (scenografie, dialoghi, musiche, temi legati a luoghi e personaggi, effetti sonori e molto altro), dopodiché si può passare a
tradurre in parole quel che si vede, componendo un testo originale che restituisca, senza imbeccate superflue, la stessa esperienza e che rispetti le intenzioni artistiche rendendo comprensibile ciò che i personaggi non esprimono a voce. Infine, è necessario mondare il testo audiodescritto da scelte lessicali troppo personali, da fraintendimenti e interpretazioni ambigue, per restituire una descrizione che
non è una spiegazione e che può finalmente armonizzarsi con il video.
La difficoltà nel trovare un giusto compromesso tra lo scarso tempo a disposizione e l’alta specializzazione del professionista colpisce anche l’adattamento dei dialoghi per ildoppiaggio, dove il linguaggio parallelo
nato dagli incidenti dovuti alla fretta è scherzosamente detto “doppiaggese”.
Ne riporto qualche esempio. Quando la linea telefonica è debole, non diciamo “riesci a sentirmi?” (can you hear me?), ma “mi senti?”; nessun professore interromperebbe le urla belluine della classe con
un perentorio “tranquilli!” (be quiet!), ma dice “silenzio!” o “zitti!”; parrebbe strano dire “ti amo” (I love you iperbolico) a un amico, meglio “ti voglio bene”; un italiano non “lascia l’appartamento” (to leave the
apartment), trasloca o, al limite, cambia casa.
Un parlante esperto non adotterebbe formule così inconsuete, vero? Eppure, molti di loro pranzano “alle dodici” e non a mezzogiorno; rispondono “assolutamente” (absolutely) a chi ha appena offerto loro del vino e ora non sa se versarlo o no. Le formule del doppiaggese si insinuano nel parlato di tutti i giorni e riescono a superare con facilità le difese erette da anni di pratica; inutile dire quanto sia semplice far breccia in quelle di chi sta imparando la lingua, come i  più piccoli.
Il veicolo audiovisivo è così efficace da modificare la lingua parlata (ai posteri dire se in meglio o in peggio) e con questo intendo rilevare e sottolineare nulla più che la sua influenza sulla mente dello spettatore perché, come già detto, una lingua non è solo grammatica.
Chi decide di lavorare in questo campo deve conoscere lo strumento che ha a disposizione e usarlo con piena consapevolezza, con profondo senso di responsabilità, anche se il tempo stringe, anche
se “ormai i precedenti ci sono già”, anche se esiste la licenza poetica, poiché occorre tenere sempre a mente che questo veicolo culturale, malgrado tutte le buone intenzioni, può essere un semplice mezzo, una fonte di innovazione e perfino un’arma.
Laura Giordani

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